Un’identità per il partito. Pensata per i figli, non per i genitori
Alemanno al Campidoglio è il colpo del knock out che ti manda al tappeto.
Mentre, per stare alla metafora pugilistica, le urne del 14 aprile rappresentano un pugno formidabile al bersaglio grosso.
Una situazione che comunque vede il Pd costituirsi durante una vivace campagna elettorale condotta magistralmente da Walter Veltroni e insediarsi come prima forza in alcune città del Nord. Per capire diventa indispensabile non disperdersi in troppe analisi e scegliere un punto di vista. È una vecchia lezione dell’operaismo italiano che può tornar utile.
Il punto di vista che inizialmente scelgo è quello di chi constata che il berlusconismo si è prima insediato nella società civile e ha poi lucrato consenso nelle urne e ipotecato le istituzioni. In una campagna elettorale che ha messo totalmente la sordina ai temi cosiddetti eticamente sensibili per concentrarsi sulle paure (i rom) e sugli interessi. Con un Cavaliere che non riempiva le piazze e mandava avanti sul territorio banchetti e gazebo della Lega.
Conseguendo quella che è stata correttamente definita una vittoria “strategica”, frutto cioè di un accorto posizionamento sul campo. Là dove non ha funzionato invece il raccordo tra il governo Prodi, che produceva finanziarie nel tempo breve e programmava agevolazioni nel tempo medio, e il partito di Veltroni naturalmente portato a esaltare la novità del vettore e la discontinuità dell’approccio.
È finita in pesante sconfitta per mancanza del tempo necessario a illustrare la novità, difendere i punti forti del governo e più ancora per radicare il partito. Tornare al territorio è diventato l’imperativo categorico.
Il modello additato è il comportamento di Bossi e dei suoi, elevato a paradigma da analisti acuti e insospettabili del calibro di Marco Revelli.
Sul punto specifico una osservazione soltanto: la Lega è sì “prossima” al territorio e presente tra la gente non soltanto nelle feste comandate, ma è anche partito da sempre identitario, un’identità che si sente minacciata da una globalizzazione dove la finanziarizzazione dell’economia e della vita quotidiana e il “mercatismo” messo alla berlina dall’ultimo libro di Tremonti disegnano uno scenario che chiede di essere affrontato con un supplemento di politica. Identità ritrovata della Nazione dunque, e quello stato che, pur avendo le radici nel Seicento europeo, resta sulla scena come lo strumento più disponibile a veicolare politica, soprattutto se comparato con gli altri vettori internazionali a disposizione. Una posizione che Lindon LaRouche e signora sostengono da quindici anni.
Il secondo punto di vista (e due sono sufficienti) lo scelgo prendendo in esame il risultato elettorale, e tutto politico, dell’Udc di Pierferdinando Casini. Credo infatti che esso riassuma, quasi uno scrigno, un nodo di osservazioni possibili. Ovviamente non è l’entità dei numeri percentuali, discreti o modesti, a interessare, ma la qualità che a essi viene attribuita. Se vi si legge un’evoluzione possibile o una sorta di residuo paretiano. La mia valutazione sta dalla parte di chi pensa trattarsi di un partito residuale, sorta di resto della Dc. Perché la Dc non torna: non si danno le condizioni interne e internazionali per una sua qualche metempsicosi. La spinta al bipartitismo affiorata nel bipolarismo italiano sottrae spazio a quel centro cui Casini avrebbe potuto realisticamente aspirare se avesse sostenuto l’ipotesi sottesa al governo non nato di Franco Marini. Con Marini a palazzo Chigi la riforma elettorale alla tedesca sarebbe entrata nel novero delle possibilità concrete, sostenuta anche dal buon senso di chi vedeva sensato cambiare le regole (il porcellum) prima di giocare la partita. Ma Casini, ignoro le ragioni di una incomprensibile latitanza, ha mancato quell’appuntamento strategico per il suo disegno politico. Infine l’Udc ha letteralmente sussunto la Rosa Bianca di Savino Pezzotta, cannibalizzando la figura più verace di una parte della tradizione cattolico democratca. È un caso? Bisogna riconoscere a Casini, oltre a una sperimentata capacità di manovra politica, una sicura coerenza anti-degasperiana, a partire dall’origine, ossia dalla rottura, compiuta insieme a Mastella e Ombretta Carulli, con il Ppi di Martinazzoli. Se per De Gasperi la Dc era, fin dall’intervista al Messaggero del 17 aprile 1948, «un partito di centro che cammina verso sinistra » (cammina, letteralmente, e non guarda, come vien talvolta tramandato), il centro di Casini ha sempre guardato a destra. L’origine conta.
E la coerenza sarà pure una virtù.
Questo per dire che il pluralismo delle diverse culture lascia aperto un tema non da poco nel Pd. Si può dare un partito senza identità? In che modo pluralismo delle origini e profilo identitario del partito possono convivere nel tempo? Quale “meticciato” è alla nostra portata? In quali luoghi disputare? Dirsi riformisti o riformatori è orizzonte sufficiente? Da quali temi una proposta riformatrice è chiamata a ripartire? Qui scava la talpa dei critici di Veltroni, non soltanto dal lato di chi ha fatto la sua scommessa epocale sul partito socialdemocratico.
Dietro le dichiarazioni rilasciate l’altro giorno al Corriere da Enrico Farinone si può leggere disagio, bisogno di rappresentanza, computo dei posti, ma si deve anche leggere un’istanza di identità, tutta da discutere, ma certamente da non rimuovere.
Personalmente vi leggo anche l’esaurimento di una costruzione per quote intese a salvaguardare storici filoni culturali. Qui Franco Marini fu inimitabile, ma le stagioni si chiudono e le discontinuità accadono, ancorché non richieste o cercate. Chiusa la stagione democristiana (non partito cattolico, ma di ispirazione cristiana) resta aperta per i credenti la questione di una politica di ispirazione cristiana. Ridurla a revival della questione democristiana non aiuta, a mio parere, a risolvere il problema.
A destra la questione è stata “espulsa” da Berlusconi con l’allontanamento di Casini.
A sinistra si è dissolta nei numeri e nei flussi (dal Pd all’Udc). La circostanza è tale da rischiare di ridurre il ruinismo politico, non poco sagace e non di rado fin qui vincente, comunque sempre in grado di ridare dignità alla parola politica altrimenti svilita nel gossip, a componente interna del centrodestra.
L’approccio veltroniano, in quello che con vezzo weberiano potremmo indicare come il politeismo delle culture politiche, è risultato avvolgente. Sorta di sublimazione erotica della politica del “ma anche” all’insegna (dice qualcuno) del “sono come tu mi vuoi”.
Radicare il partito sul territorio implica comunque il fare i conti con il tema spinoso dell’identità.
Che popolari e cattolico democratici appaiano infastiditi o addirittura allarmati dal riproporsi di una Cosa diessina con un nuovo numero significa che il tema non deve essere archiviato come retro con un’alzata di spalle. Con un’avvertenza: che l’identità da proporre e disputare non è quella cattolico democratica, ma quella del partito nuovo, teso a una sintesi inedita e possibile, adatta ai figli del Pd piuttosto che ai suoi genitori.
L’ispirazione cristiana resta nello spazio pubblico, non da sola. Se fossi buddista direi che una sorta di metempsicosi l’attende.
Siccome sono invece cattolico dirò che è chiamata a una nuova inculturazione. È un termine ricorrente nei testi del Concilio.
Chissà che non giovi a questa politica.
lunedì 5 maggio 2008
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